"C'è la bellezza e ci sono gli oppressi.
Per quanto difficile possa essere,
io vorrei essere fedele ad entrambi"
Albert Camus

martedì 10 aprile 2007

Jean Eustache

Sono cresciuto con i film di Truffaut, mi piacerebbe scrivere e girare come Rohmer ma amo Philippe Garrel e Jean Eustache. Di quest'ultimo ho visto un film che non dimenticherò mai, si chiama "La Maman et la putain". Tre ore e mezza di film un "road movie" della parola, Rai 3 lo ha trasmesso io l'ho registrato, lo conservo in un fottuto vhs.
Jean Eustache è morto suicida nel 1981, aveva 43 anni.
Serge Daney è stato un grande critico di Liberation, il 16 novembre 1981 scrisse un articolo meraviglioso in ricordo dell'amico scomparso, eccolo.

La morte di Jean Eustache sconvolge ma non sorprende. I suoi amici ve lo diranno, era un suicida. Era legato alla vita solo da un piccolo numero di fili, così solidi che avevamo finito per crederli indistruttibili. Ci eravamo sbagliati. Il desiderio di cinema era uno di questi fili. Il desiderio di non filmare a ogni costo ne era un altro. questo desiderio era un lusso ed Eustache lo sapeva. Ne ha pagato il prezzo.
Non basta dire che era approdato al cinema con la Nouvelle Vague appena un pò dopo ma con gli stessi rifiuti e le stesse ammirazioni. Non basta dire che era un "autore", il suo cinema era spietatamente personale. I suoi film nascevano solo quando era abbastanza forte per farli nascere, per far ritornare in lui quello di cui era fatta la sua vita.
Nel corso dei desolanti anni '70, i suoi film si sono susseguiti, sempre imprevisti, in maniera non sistematica, senza interruzioni. Film fiume, film brevi, programmi televisivi, una realtà appena filtrata dalla fiction, una fiction iperreale. Ogni film andava fino in fondo alla sua materia, portava con sè la sua durata. Impossibile per questo teorico della seduzione e dell'abbordaggio sedurre un pubblico.
Quel pubblico lo aveva avuto dalla sua una volta, quando aveva fatto il più bel film francese del decennio (La Maman et la putain, 1973). Senza di lui non avremmo alcun volto da mettere sul ricordo dei ragazzi perduti del maggio '68. Perduti e già invecchiati, straparlanti e fuori moda: Lafont, Leaud e soprattutto Francoise Lebrun, con il suo scialle nero e la sua voce ostinata. Senza di lui non resterebbe nulla di tutto questo.
Etnologo della sua realtà, Eustache avrebbe potuto far carriera, diventare un buon autore, con fantasmi e visioni del mondo, uno specialista di se stesso in qualche modo. La sua morale glielo impediva: non filmava quello che lo interessava, riusciva a trascrivere quello che lo tormentava. Le donne, il dandysmo, Parigi, la campagna e la lingua francese. Era già molto.
Come un pittore che sa di non poterne mai venire a capo, non ha mai smesso di ritornare sull'argomento, servendosi del cinema non come di uno specchio (questo è tipico dei bravi registi) ma come dell'ago di un sismografo (questo è tipico dei grandi).
Artista e nient'altro (sapeva fare solo film), portava, al contrario, il discorso più modesto e allo stesso tempo più orgoglioso, quello di un artigiano. L'artigiano pesa tutto, valuta tutto, assume tutto, memorizza tutto. Così faceva Eustache.
Un anno alcuni amici marocchini avevano organizzato a Tangeri una retrospettiva completa della sua opera. Difficile fargli lasciare Parigi, pensavamo. Eppure venne e restò due giorni. Tangeri non era Parigi, cercammo un bar all'aperto fino a tardi per bere birra e parlare di cinema. Eustache parlava dei suoi maestri ai quali non osava paragonarsi: Pagnol e Renoir. Non dimenticherò mai il modo in cui evocava i loro film, li faceva rivivere nella sua lingua inquadratura dopo inquadratura, con il tono della voce. Tutto questo sconvolgeva ma non sorprendeva.
Eustache somigliava troppo al suo tempo per sentircisi a suo agio. Ha finito per perdere. Peggio per noi.

La maman et la putain, 1973

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